LA MORTE DI DIO PER LA SALVEZZA DELL’UOMO
Da sempre la croce è scandalo e follia per i benpensanti e i razionalisti di ogni tempo. Oggi più che mai. Nelle società sazie ed opulente dell’Occidente più che in quelle povere. Ma senza croce non c’è cristianesimo. Forse il principale segno di contraddizione logica ,che per il credente è però simbolo di salvezza.
don Antonio Savone
Di fronte alla croce. Siamo invitati a sostare dinanzi a quella che è al contempo “immagine della sofferenza” ma anche “immagine dell’amore di Dio”, “immagine di impotenza” ma anche “immagine di misericordia”, “immagine del silenzio” ma insieme “immagine di una particolare parola del Signore”.
La croce “diventa così un invito a vivere ogni esperienza, compresa quella della sofferenza e della suprema impotenza, nell’atteggiamento di chi crede che l’amore misericordioso di Dio vince ogni povertà, ogni condizionamento, ogni tentazione di disperazione”.
La croce ci parla di un Dio nascosto. Un Dio che pur operando nella storia, si nasconde dietro i suoi avvenimenti. Anche se nascosto non è assente. La nostra storia, personale e comunitaria, va letta come luogo nelle cui pieghe c’è una potenza dinamica, ricca di energie capaci di rinnovare, di trasformare e che pur tuttavia resta nascosta e richiede un occhio tutto particolare per riconoscerla, accoglierla e valorizzarla. La passione di Gesù è senz’altro una situazione storica in cui la presenza-assenza del divino, misteriosa e ricca di potenza è espressa nel suo apice. Un nascondimento voluto. Al discepolo che voleva difenderlo con la forza da coloro che venivano per catturarlo Gesù aveva intimato: “Rimetti la spada nel fodero…Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli” (Mt 26,52-53).
La passione di Gesù va dunque letta come il momento in cui la potenza di Dio, e addirittura la sua gloria, si è espressa nell’umiliazione e nella passività del Figlio dell’uomo torturato a morte. Nella croce si riflette, come in uno specchio, il Vangelo.
Sosteneva il filosofo Paul Ricoeur, che “La nostra fede ha un valore strutturante ed è pure sorgente di riflessione sulla condizione umana, sui rapporti dell’uomo con se stesso e con gli altri… Entrare nel movimento della fede è decidere di fare di Gesù Cristo, il principio organizzatore della propria vita, della sua comprensione e del rapporto con altri”.
La croce di Gesù, infatti è un “no” a una figura del divino inteso quale onnipotenza dispotica, vendicativa, quale limitazione invidiosa dell’umano e del suo cammino, quale incapacità di dono e di auto‑donazione, quale santità inconciliabile con la misericordia. E un “no” detto a un divino in cerca di una vittima designata.
Dalla croce di Gesù viene anche un discorso sull’umano: è un “no” detto a un progetto come quello che si è espresso in coloro che per invidia o sete di potere hanno messo a morte Gesù.
Dalla croce Gesù propone in positivo un altro tipo di umanità: è l’umanità di chi vive la beatitudine dei miti e degli operatori di pace. È la proposta di un rovesciamento di mentalità e di comportamento. La mentalità propria di chi riconosce che il nostro Dio appare non di rado nella vicenda umana come un “Dio nascosto”, un Dio che opera nelle pieghe della storia, anche sotto il velo dell’umiliazione e della sconfitta: in tutto ciò egli manifesta il suo amore per l’uomo, il suo perdono e la vittoria della sua misericordia. Proprio per questo si riconosce che Dio fissa l’appuntamento con lui in quelle situazioni, persone o realtà alle quali noi non assegneremmo mai un compito di rivelazione del divino. Anche là Dio si nasconde. E pur tuttavia è presente.