Fine della cristianità e vitalità del cristianesimo
“Si avvicinò e camminava con loro” (Lc 24,15). L’immagine evocata dall’evangelista nel racconto di Emmaus ha dominato il convegno diocesano fino a costituire l’icona della Chiesa di oggi. Di quella locale, alla vigilia della successione episcopale, e di quella universale, da tempo alle prese con una difficile transizione nell’era del post-moderno, come si è incaricato di dimostrare il relatore, don Giuliano Zanchi, prete della diocesi di Bergamo, docente di teologia alla Cattolica di Milano, e direttore della “Rivista del clero italiano”.
Un discernimento che è andato avanti per due giorni – l’11 e il 12 ottobre, in pieno sinodo e in vista del giubileo del 2025 -nella chiesa di santa Cecilia, a Poggio Tre Galli di Potenza, gremita di operatori pastorali, sacerdoti, docenti di religione e fedeli impegnati.
La “novità” diocesana, del resto largamente prevista, è stata annunciata direttamente dall’Arcivescovo, in apertura dei lavori: col compimento del settantacinquesimo anno di età, il 13 ottobre, mons. Ligorio ha rimesso il suo mandato episcopale nelle mani del papa, cui spetta ora decidere nome, tempi e modi della successione.
Ed in senso stretto nemmeno la relazione di don Giuliano ha descritto un mutamento improvviso ed inatteso del panorama sociale ed ecclesiale nel tempo che viviamo. È parsa, piuttosto, un invito a prendere atto, con serenità e fiducia, dei profondi cambiamenti introdotti dalla secolarizzazione anche nel proprio contesto di vita, che traduce a livello locale i risultati di sondaggi che danno a non più di uno scarno 18% la percentuale di assidui alla messa domenicale e di un 30% che si dichiara addirittura ateo.
” La cristianità è finita – ha scandito, in estrema sintesi il teologo bergamasco – il modo di vivere e di operare tradizionale non funziona più nella pastorale di ogni giorno”. Che vuol dire, in pratica, che la società non scandisce più i suoi ritmi, come è stato per secoli, sul calendario della chiesa e sui tempi della parrocchia.
Una constatazione, del resto, in linea con l’esperienza di ciascuno degli ascoltatori, attraversata spesso da dubbi, perplessità a volte perfino da sconcerto, circa il senso e l’efficacia del proprio impegno in parrocchia, a scuola o in altro ambito. E l’assemblea ha sottolineato con applausi i passaggi “più crudi” della relazione, in segno di evidente condivisione di una diagnosi che trovava più o meno riscontro nel vissuto quotidiano di ognuno.
E proprio qui don Giuliano, alla ricerca di una terapia, ha chiamato in soccorso il “paradigma di Emmaus”, ritenendo che in una situazione simile a quella di allora potrebbe trovarsi il cristiano di oggi, in fuga dal suo tempo, perché deluso dall’indifferenza generale, proprio come i due discepoli descritti da Luca lasciavano Gerusalemme, frustrati nelle loro attese, dopo le scene del Golgota. Don Giuliano li ha chiamati “testimoni infelici”, quelli di ieri e quelli di oggi.
E continuando nel “paradigma”, ha ricordato che in aiuto di quei discepoli “venne uno Straniero che suggerì nuovi criteri di lettura della realtà”. Proprio come è necessario fare oggi, “rileggendo con spirito profetico e senso storico” quelle stesse scritture suggerite dal viandante sconosciuto ai suoi ignari interlocutori. La morte della cristianità, intesa come legame stretto di religione, morale, società civile e perfino Stato, non coincide affatto con la morte del cristianesimo, chiamato, piuttosto, a restare fedele al mandato delle origini, di vivere, cioè, storicamente il proprio paradosso dell’incontro dell’eterno col tempo. Un cristianesimo meno forte, di minoranza, senza più l’orizzonte cristiano di una volta, definito “un catecumenato sociale”, è addirittura più vero, ha scandito don Giuliano, perché libero da quei lacci che imbrigliavano la profezia.
La domanda, ovvia e necessaria del teologo, che per la verità oggi interpella tutti i credenti, non riguarda la nostalgia del passato, che sarebbe, del resto, fuori luogo, ma l’essere per il futuro: e cioè come diventare “cristiani significativi ed autorevoli” nella società dei “saperi forti,” come la scienza e la tecnologia che, a parte i tanti vantaggi, tendono troppo spesso a scambiare la verità con la certezza matematica.
La proposta suggerita per la transizione ormai in corso è quella di “salvare la profezia, mantenere la Parola, preservare il segno”.
E cioè “scrutare gli orizzonti – parole di don Giuliano – interpretare le Scritture alla luce delle domande poste dalla cultura di oggi, e preservare i segni”, cioè, salvaguardare la liturgia. Ma è parso ovvio all’assemblea che tutto questo rimette in gioco non solo il ruolo dei laici impegnati, ma anche un modo di essere e di porsi tradizionale, per molti versi ancora “tridentino”, della chiesa istituzionale. In discussione, insomma – ha confermato don Giuliano – è proprio la “ministerialità”, a cominciare dalla figura del prete, del quale il relatore prevede, in un tempo più o meno breve, una mutazione di ruolo, di forma e di funzione, oltre che una formazione più adeguata ai tempi nuovi. Il sacerdote – e parlava anche, è parso di capire, della sua esperienza – “oggi è l’ingranaggio debole dell‘istituzione, il personaggio più stressato della chiesa”.
E in conclusione, è giunta la domanda di fondo; così stando le cose, “a che serve la Chiesa”?
Il professor Zanchi, che ha affrontato il tema in numerose pubblicazioni, ha risposto: “a tener vivo il desiderio del Dio di cui ci ha parlato Gesù; ad essere segno tra gli uomini, della sua giustizia e del suo amore per la vita umana”.
Il convegno si è concluso giovedì con una concelebrazione in Cattedrale presieduta dal Vescovo. La ricerca, invece, è appena cominciata.